CONTATTO E CONTROLLO
CONTATTO E CONTROLLO: 7 SKILLS FONDAMENTALI CHE NON DOVREBBERO MANCARE IN UNA RELAZIONE EDUCATIVA
Appaiono lontanissimi (anche se non lo sono in realtà) i tempi in cui l’autorità genitoriale si guadagnava automaticamente per il solo fatto di essere divenuti genitori e di appartenere a una generazione precedente a quella dei nuovi nati.
Oggi pare che i genitori incontrino sempre più difficoltà a far dialogare le emozioni con la ragione, sono preoccupati delle emozioni dei figli, comprendono l’importanza di accogliere e validare, ma poi vengono meno al ruolo di guida.
Non sembra quindi un caso che il concetto di “competenza genitoriale” sia diventato sempre più fonte di ispirazione per un’ampia produzione scientifica sul tema. La competenza genitoriale è stata inizialmente studiata per rispondere all’esigenza di una sua valutazione in termini di “misurabilità” e “funzionalità”.
Le relazioni familiari infatti, per la pedagogia e la psicologia, possono presentarsi o secondo un’alta funzionalità o via via lungo una scala che può indicarle come altamente disfunzionali.
Essere genitori competenti significa rientrare in un quadro di “funzionalità”, intesa nei termini di un genitore in grado di facilitare lo sviluppo e il successo dei figli; si tratta, quindi, di una dimensione “misurabile”: la competenza può essere definita per esempio da dimensioni quali la percettività, la responsività e la flessibilità.
Pur nella consapevolezza che la ricerca di rigore nella valutazione della competenza genitoriale e delle funzioni genitoriali che ne conseguono, sia molto importante per le ricadute assolutamente concrete e profonde nella vita reale di genitori e figli (basti pensare ai casi di affidamento di un minore nelle separazioni coniugali, o alle richieste di allontanamento di un minore dalla famiglia d’origine, per maltrattamento, incuria, abuso, ecc.), l’esigenza di valutare la competenza genitoriale in termini di sola funzionalità appare spesso insufficiente per un’autentica educazione dei figli, ma anche degli stessi genitori.
In effetti, già all’interno della letteratura psicologica, possiamo trovare altri studi che guardano alla genitorialità con una prospettiva differente che si allontana da una definizione di performance misurabile. La competenza genitoriale si sostanzia dunque nelle capacità del caregiver di riequilibrare gli errori commessi, consapevole di poter di fallire di nuovo.
Occorre inoltre riflettere sul fatto che, nel nostro tempo, la “pedagogia spontanea” diffusa identifica la competenza genitoriale – l’esser “buoni genitori” – con la capacità/possibilità di rispondere ai bisogni del figlio, di modellarsi sulle sue preferenze, talvolta di riuscire ad appagare ogni suo desiderio.
Ciò che accade spesso a molti genitori, è di prestare attenzione solo ai bisogni più basilari, quelli primari, e alle performances dei bambini e degli adolescenti, senza riuscire a riconoscere i bisogni più profondi e quindi senza riuscire davvero ad educare la persona.
Indubbiamente l’attenzione ai bisogni fisiologici e psicologici dell’individuo, può garantire il benessere dell’individuo, ma non è sufficiente alla completa realizzazione del suo processo di educazione.
In tal senso, alcune forme di iper-cura possono essere lette come forme di maltrattamento del bambino, segni di “un’incompetenza” genitoriale che diventa tale proprio quando i genitori aspirano alla perfezione, ponendosi l’obiettivo di una cura che non dimentica niente o di una cura che finisce con il volersi sostituire all’altro in ogni sua iniziativa.
Proponiamo dunque di pensare il bisogno educativo come bisogno di riconoscimento, un bisogno fondamentale ed originario: quello di essere riconosciuti, ma anche di riconoscere nell’essere, cioè di esser guidati a riconoscere significati e valori per una piena personalizzazione della propria esistenza.
Pertanto possiamo pensare la competenza genitoriale come ciò che permette di rispondere al bisogno educativo di riconoscimento, intendendo con quest’ultima espressione tanto bisogno affettivo di esser riconosciuti come persone, quanto bisogno etico di esser guidati a riconoscere realtà e valori altri rispetto a sé (ivi compreso la realtà e il valore dell’altro).
La competenza genitoriale oggi è troppo spesso sbilanciata sull’affettività o, meglio, su un generico emotivismo, traducendosi così in diverse forme di incompetenza educativa.
Fermo restando l’importanza della capacità genitoriale di contenimento emotivo, essa non è di per sé sufficiente per dare al bambino ciò di cui ha bisogno per crescere come persona e per vivere nel modo migliore possibile quella specifica età della vita che è l’infanzia.
Non a caso oggi si parla spesso di un “bambino imperatore” o addirittura tiranno, sempre irrequieto e insoddisfatto.
La nostra epoca appare in effetti segnata da un vero e proprio culto delle emozioni, secondo cui le emozioni vanno sempre e comunque espresse e seguite per poter essere “autenticamente” se stessi e stare “autenticamente” con gli altri.
Vige altresì un dogmatico rifiuto di ogni forma di “autorità” educativa, quasi che essa non possa che essere sinonimo di rigido e violento autoritarismo. Molto diffuso è allora lo stile educativo permissivo: per molti genitori risulta insensato, difficile e alla lunga insostenibile segnare differenze e limiti, quindi stabilire regole, comunicarle in modo adeguato e farle rispettare.
Con ciò viene meno uno degli ingredienti fondamentali della relazione educativa quella del “controllo”.
Infatti, come molti studi hanno messo in evidenza, in una relazione educativa due sono le variabili che sempre dovrebbero entrare in gioco: il contatto e, appunto, il controllo.
Con il primo termine si intende la presenza fisica di un caregiver responsabile che offra contatto, riconoscimento e contenimento emotivo, che sia in grado di insegnare al bambino modi adeguati per esprimere le emozioni.
Con il secondo termine si intende la capacità di guidare, dare regole e indicazioni, limitare i comportamenti socialmente problematici e offrire un modello positivo di gestione della frustrazione e rabbia.
Da queste descrizioni si capisce come NON SIA SUFFICIENTE ascoltare e accogliere le emozioni dei figli, ma sia ASSOLUTAMENTE NECESSARIO che il genitore sappia mettere le emozioni in dialogo con la ragione al fine di far maturare nel figlio una vera e propria INTELLIGENZA EMOTIVA.
Con tale espressione gli studi psicologici e pedagogici alludono ad una serie di abilità interrelate tra cui:
1) esser consapevoli delle proprie emozioni;
2) saperle esprimere anche in base al contesto;
3) saper interpretare i comportamenti altrui e riconoscerne le intenzioni;
4) saper distinguere l’emozione provata dall’emozione espressa;
5) usare unvocabolario emotivo adeguato;
6) essere empatici;
7) saper attivare strategie di coping.
Chi possiede o almeno lavora su di sé per acquisire una simile competenza, può essere per la crescita affettiva dell’altro guida.
Da questo punto di vista, si può dire che l’incompetenza genitoriale di taluni genitori di oggi si leghi ad una incompetenza emotiva, sia pure nascosta da una strenua esaltazione del valore delle emozioni.
Altri, sono permissivi nel tentativo di non ripetere i deprecabili errori che spesso nel loro passato di figli si legavano all’autoritarismo. In ogni caso sembra che molti genitori di oggi non riescono – non sono educati – a cogliere che la vera autorità è l’impegno a far crescere l’altro.
Ciò significa tollerare e insegnare a tollerare anche disagi e frustrazioni, in nome degli obiettivi di crescita della persona proprio in quanto persona.
Il ruolo di guida dei genitori è quindi complesso e multifaceted, va oltre il fornire solo necessità materiali e coinvolge la creazione di un ambiente ricco di valori, supporto e opportunità per la crescita e lo sviluppo dei bambini. Quando i genitori assumono consapevolmente questo ruolo, hanno un impatto duraturo sulla vita dei loro figli, contribuendo a formare individui responsabili, equilibrati e moralmente consapevoli.
Dott.ssa Barbara Bove Angeretti
Consulente per il sonno e l’educazione empatica
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