QUANDO IL SECONDO FIGLIO ARRIVA PER NON LASCIARE SOLO IL PRIMOGENITO

La decisione di allargare la famiglia e accogliere un secondo figlio è spesso accompagnata da un insieme di emozioni, aspettative e motivazioni più o meno consapevoli… In molti casi, questa scelta nasce da un desiderio condiviso all’interno della coppia. Altre volte, però, può essere guidata da un impulso diverso: la volontà di “fare un regalo” al primogenito, di offrirgli un compagno di giochi, di proteggerlo dalla solitudine o di compensare qualche mancanza percepita.
Ma cosa accade quando un secondo figlio viene concepito più per rispondere a un bisogno del primo che per un autentico desiderio dei genitori?
Quali dinamiche relazionali si attivano? E quali conseguenze può avere questa scelta sullo sviluppo emotivo e sull’identità di entrambi i figli?
In questo articolo, analizzeremo queste domande attraverso l’osservazione di un caso clinico, riflettendo su come la storia personale dei genitori — e in particolare la loro eredità emotiva — possa influenzare profondamente l’equilibrio familiare e il modo in cui ciascun figlio trova il proprio posto nel mondo.
Infatti, la scelta di avere un secondo figlio per soddisfare un bisogno del primogenito, piuttosto che per un desiderio autentico della coppia genitoriale, può innescare una serie di dinamiche psicologiche complesse che influiscono profondamente sullo sviluppo emotivo e relazionale di entrambi i figli.
Nel caso di una paziente che ho recentemente seguito, la storia della madre gioca un ruolo determinante nella costruzione del rapporto tra due sorelle e nella loro percezione di sé.
• L’eredità emotiva della madre
Parliamo di una donna, primogenita di 5 figli, cresciuta in un contesto di forte responsabilizzazione precoce che ha sviluppato un vissuto di trascuratezza emotiva e invisibilità.
Essendo stata costretta a occuparsi dei fratelli minori, ha probabilmente interiorizzato l’idea che l’arrivo di nuovi bambini in famiglia significhi perdita di attenzioni e sacrificio personale. Di conseguenza, una volta diventata madre, si impegna a evitare che la sua primogenita subisca lo stesso destino, sviluppando un atteggiamento iperprotettivo e permissivo.
In questa dinamica, la frustrazione è vista come un pericolo da evitare, piuttosto che come un’esperienza necessaria per la crescita, i beni materiali come un vanto, l’approvazione degli altri come necessaria.
• Il secondo figlio come risposta al bisogno del primo
Quando la primogenita esprime il desiderio di avere un fratello o una sorella — desiderio che potrebbe nascere da un senso di vuoto affettivo, alimentato da una madre emotivamente distante e da un padre assorbito dagli impegni lavorativi — la madre interpreta questa richiesta come un bisogno urgente da soddisfare. Tuttavia, lo fa senza interrogarsi sulle implicazioni psicologiche e relazionali che un nuovo arrivo potrebbe comportare, né sul significato profondo di quella domanda.
La nascita del secondo figlio, in questo caso, non rappresenta una scelta matura e condivisa da parte della coppia genitoriale, ma una risposta impulsiva e riparativa: un tentativo di colmare le carenze percepite nella vita della primogenita, di proteggerla dalla solitudine e di offrirle ciò che la madre stessa avrebbe voluto ricevere da bambina.
Questa motivazione, pur animata da buone intenzioni, può generare un equilibrio familiare fragile e disfunzionale, esponendo i figli a dinamiche di rivalità, senso di ingiustizia e confusione identitaria.
• La delusione e la gestione della rivalità fraterna
Quando la primogenita si accorge che la presenza della sorella non è così gratificante come aveva immaginato, manifesta il desiderio di “rimandarla indietro”, chiede che venga allontanata o spostata in un’altra stanza (e i genitori assecondano spesso la richiesta) diventa aggressiva nei suoi confronti sia verbalmente che fisicamente (i genitori intervengono solo occasionalmente) e vede un senso di ingiustizia ogni volta che, per quanto blandamente, la madre cerca di tutelare la minore.
Questa reazione è comune nei bambini che devono adattarsi a un nuovo equilibrio familiare. Tuttavia, in questo caso specifico, la madre — nel tentativo di evitare qualsiasi sofferenza alla primogenita — finisce per alimentare una dinamica disfunzionale: fa di tutto affinché la secondogenita non la infastidisca, arrivando a trascurare sistematicamente i bisogni della più piccola.
Così facendo, rinforza nella figlia maggiore l’idea che il mondo debba sempre adattarsi ai suoi desideri, compromettendo l’equilibrio affettivo tra le sorelle e ostacolando lo sviluppo di una relazione sana e reciproca.
• Il senso di ingiustizia e l’evoluzione della primogenita
Nel tempo, questa gestione sbilanciata della relazione fraterna porta alla costruzione di un’identità fragile nella primogenita e un risentimento profondo nei confronti della sorella che non è venuta al mondo solo per “allietare” le sue giornate, determinando una forte aggressività verbale, psicologica e fisica.
Non avendo mai sperimentato frustrazioni adeguate alla sua crescita (se ti interessa questo argomento, segui il seminario in cui ne parlo) e quand’anche, comunque lasciata sola nella gestione emotiva, sviluppa una bassa tolleranza alla frustrazione e un senso di onnipotenza che la porta a credere di poter ottenere sempre ciò che vuole. Allo stesso tempo, il favoritismo percepito genera nel tempo sentimenti di colpa, disorientamento e rabbia repressa.
Nel corso dell’adolescenza, la difficoltà a gestire le emozioni, unita alla scarsa capacità di affrontare ostacoli e limiti, favorisce l’insorgenza di comportamenti disfunzionali. La ricerca di emozioni forti e di esperienze estreme, l’uso di alcol e sostanze, l’aggressività e la tendenza a cercare continue gratificazioni immediate diventano una risposta a una profonda insicurezza interiore e a un’identità costruita su basi fragili.
• Il ruolo della madre e le possibili conseguenze
Il tentativo della madre di compensare la propria infanzia dolorosa attraverso la primogenita ha portato a un modello relazionale disfunzionale, che ha impedito alla figlia di sviluppare strumenti di coping.
Parallelamente, la secondogenita cresce in un ambiente in cui i suoi bisogni sono spesso messi in secondo piano, sviluppando un senso di ingiustizia e di minor valore unito a un atteggiamento sottomesso, accettando di essere sempre messa da parte perchè i suoi bisogni sono sempre stati sminuiti o ignorati.
• Conclusioni
È assolutamente normale che i genitori in attesa del secondo figlio sentano per “istinto” di dover tutelare il primogenito – anche a causa delle continue pressioni sul tempo esclusivo (Ti interessa l’argomento e vuoi saperne di più sulla reale necessità di tempo esclusivo? Leggi “Educare con empatia”). Si rendono conto che l’arrivo di un nuovo membro in famiglia cambierà gli equilibri e, pur sapendo (o avendo letto da qualche parte) che l’amore si moltiplica, sono consapevoli che il tempo e le energie non fanno lo stesso. Questo può portarli, anche inconsapevolmente, a sviluppare una sorta di “debito affettivo” nei confronti del primo, che percepiscono come “quello che perderà qualcosa”.
Tuttavia, quando nasce il secondogenito, si attivano dinamiche psicologiche complesse che vanno ben oltre la semplice redistribuzione delle attenzioni.
Il secondo figlio entra in una famiglia che ha già una storia, un linguaggio relazionale, delle aspettative e delle regole spesso modellate sul primo. In questo scenario, il secondogenito può sviluppare:
▸ un senso di comparazione e competizione con il fratello o la sorella maggiore e spesso sono i genitori a supportare queste dinamiche proponendo delle gare per ottenere collaborazione “Vediamo chi finisce prima di lavare i denti!”, “Vediamo chi mette a posto più giocattoli”;
▸ una percezione di svantaggio “sono arrivato dopo”, “non ho lo stesso spazio”;
▸ oppure, al contrario, un atteggiamento di compiacenza o sottomissione, nel tentativo di non disturbare un sistema già consolidato.
Per evitare squilibri relazionali e vissuti ingiusti, è fondamentale che i genitori imparino a trattare i figli in modo equo, ma non identico poiché equità non è sinonimo di uguaglianza.
L’idea di poter (o dover) trattare i figli ugualmente è fortemente illusoria e se vogliamo, anche sbagliata. Trattare i figli “ugualmente” significherebbe offrire a ciascuno le stesse cose, nello stesso modo e negli stessi tempi. Ma i bambini non sono tutti uguali, e ciò che funziona per uno può non andare bene per l’altro. Trattarli ugualmente significa quindi rispondere a un bisogno che non c’è oppure ignorarne uno importante.
Trattare i figli “equamente”, invece, significa riconoscere le loro differenze individuali — di temperamento, bisogni, età, sensibilità — e rispondere a ciascuno con attenzione e misura, senza favoritismi, ma con flessibilità.
In questo modo, ogni figlio si sentirà visto, accolto e rispettato per quello che è, senza dover competere per conquistare uno spazio che dovrebbe spettargli di diritto.
Le scelte genitoriali influenzano profondamente la costruzione dell’identità dei figli. Evitare a un bambino ogni tipo di frustrazione non significa proteggerlo, ma privarlo della possibilità di sviluppare resilienza e autonomia emotiva.
L’educazione equilibrata richiede la capacità di riconoscere i propri vissuti e di evitare di proiettarli sui figli, affinando la consapevolezza di ciò che si trasmette loro attraverso il proprio modo di essere e di relazionarsi. Il vero amore genitoriale non è l’assenza di limiti (se ti interessa questo argomento, segui il seminario in cui ne parlo), ma la capacità di offrire affetto, sicurezza e strumenti per affrontare la vita con maturità e consapevolezza.
Dr. Barbara Bove Angeretti
Psicologa, Coordinatore Genitoriale e Criminologa
Insegnante di Comunicazione e Mindfulness
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